martedì 19 gennaio 2010

la studentessa chiede: ma come si fa l'ETC nei bambini?

Mi chiamo Francesca Policastro e sono una studentessa di fisioterapia al terzo anno.
Da poco ho finito il mese di tirocinio presso l'Unità minori e mi sono appassionata a quest'ambito.
Abito a Trieste ed è qui che frequento l'Università; non so se lo sai, ma nel nostro corso di laurea forniscono già precocemente un approccio neurocognitivo.
Tuttavia questa filosofia viene utilizzata ancora poco per quanto riguarda l'età evolutiva, e leggendo il tuo blog mi sono sorti alcuni dubbi a cui magari puoi rispondere.

Mi chiedevo per prima cosa che valenza secondo te abbia l'aspetto riabilitativo per i bambini che tratti.
Quando si chiede ai bambini di frequentare le sedute riabilitative una volta al giorno, spesso si impedisce che frequentino gli istituti in cui si divertono con altri amici, maturando utili esperienze che ne favoriscono anche l'integrazione.
Dalla tua esperienza, il trattamento può essere praticato meno frequentemente?o forse è importante dargli una valenza differente?

Inoltre volevo chiederti come, rinnegando gli ausili, le ortesi e soprattutto le statiche, si arrivi a sopperire a quelle necessità che bambino (e genitore) possono maturare stando con i coetanei, un esempio su tutti: la stazione eretta.
Perfetti sottolinea come sia importante abbandonare il mondo delle necessità per accompagnare il paziente verso il regno delle libertà dandogli gli strumenti per scegliere.
Tuttavia la recidiva attrazione ai metodi "tradizionali", e il forte impulso a sostenere questi bambini tanto moralmente quanto fisicamente, mi impediscono di immaginare come si possa riuscire a metterli nella condizione di scegliere (avendo nell'adulto un importante aiuto dall'esperienza prelesionale che ai bambini manca).
Probabilmente la risposta si trova nei contenuti ed è più filosofica che pratica, ma data la mia poca esperienza non riesco a tradurre questi enunciati in una riabilitazione all'altezza di essi.

E ancora più in pratica, avendo approfondito solo l'utilizzo dell'esercizio terapeutico conoscitivo nell'adulto, volevo sapere come si possa tradurre il "porre problemi" in un trattamento che il bambino colga come piacevole e ludico. In secondo luogo mi interesserebbe sapere come superare alcuni ostacoli dati dalla mancanza di esperienze precedenti da richiamare, problemi nel linguaggio, ecc..

Con stima ed ammirazione
ti ringrazio molto per la disponibilità
Francesca

Cara Francesca,
le tue sono proprio belle domande, a cui rispondo con piacere, tralasciando per un momento l'aspetto "genitoriale" e mettendomi nei tuoi panni (visto che lo sono stata anch'io), di studentessa-futura terapista che giustamente si interroga.

andiamo per ordine e procediamo:
1) in sostanza la prima domanda è: ma è possibile che nella vita di questi bambini ci sia solo riabilitazione? la mia risposta è ASSOLUTAMENTE NO. una delle cose che dico sempre ai genitori è prima la vita, poi la riabilitazione. premesso che inizialmente questi bambini sarebbe meglio trattarli tutti i giorni per una questione neurofisiologica (per "guidare" in maniera più corretta possibile una riorganizzazione dopo la diaschisi ed evitare tutte quelle esperienze scorrette che possano danneggiare ulteriormente l'organizzazione stessa), questi bimbi DEVONO vivere la loro vita e fare tutte le attività che prescindono dalla riabilitazione, evitando ovviamente quelle che strutturano la patologia e che vanno valutate caso per caso (es. possono andare a cavallo? dipende, certo è che stringere gli adduttori se ha una diparesi non è che lo aiuti granchè... possono andare in piscina? dipende cosa fanno, se sono giochini e attività di rilassamento sì, ma se gli viene chiesto di fare i pesi sott'acqua o farsi le vasche è meglio di no!). E' ovvio che DEVONO andare a scuola, che DEVONO incontrare i loro compagni, che DEVONO avere una vita sociale, giocare e divertirsi, perchè anche questo costituisce apprendimento.
Per quanto riguarda la durata della seduta,
comunque l'apprendimento avviene attraverso l'attenzione, un bimbo per più di un'ora consecutiva -quando va bene!- non sta assolutamente attento, se la richiesta è specifica ed adeguata.

la terapia semplicemente deve rientrare all'interno della vita, e non la vita all'interno della terapia. Approcci terribili come il Doman, il Delacato, il Fay, molto spesso distruggono non solo il bambino -che oltre che cerebroleso spesso diventa anche uno psicotico antisociale (ci staresti tu, per anni, a strisciare rotolare e gattonare per sei, otto, dieci ore al giorno rimanendo una persona sana di mente?)-, ma soprattutto distruggono la famiglia, asservendo la vita alla patologia e trasformando la casa in una palestra dove non c'è spazio per la serenità, la tranquillità, l'ozio, il gioco fine a se stesso.
stabilito quindi un numero di ore settimanali sufficienti ed adeguate, il resto della giornata deve essere normale e semplice VITA.
Per quanto riguarda frequenza e durata della terapia negli anni successivi, va valutata caso per caso. certo è che se un bimbo ha sempre fatto ETC da quando è nato, arriva a 8,10 anni che con due volte a settimana va più che bene, perchè è un bimbo abituato a pensare al suo corpo in un certo modo e l'apprendimento ormai avviene per modalità di un certo tipo. se ha fatto Bobath o Vojta per 10 anni e poi passa all'ETC, se si vogliono vedere dei risultati bisogna insistere un pò di più, perchè c'è da destrutturare (quando si riesce!!!!) tutto quello che la terapia precedente ha "disorganizzato" per poi costruire qualcosa.

2) la seconda domanda è la più interessante, ovvero "come fare a soddisfare sia il bambino che il genitore"? è ovvio che il genitore "vuole vedere il bambino in piedi". Ma ci sono diverse considerazioni:
intanto, non è vero che noi non mettiamo in piedi i bambini. anzi, molto spesso ci riusciamo più velocemente e in maniera qualitativamente migliore degli "altri". ti faccio l'esempio di un bimbo che vedo ogni tot mesi e che viene da Alessandria. fa ETC due volte a settimana ed ha una tetraparesi. neanche un anno fa non stava seduto long sitting, l'ultima volta che l'ho visto, a dicembre, gli ho suggerito di iniziare gli esercizi in piedi perchè l'allineamento era buono, i piedi finalmente ben appoggiati, il bimbo era più coerente, ecc. la mamma mi ha detto: "ma come! proprio tu mi dici di metterlo in piedi e neanche alla ASL me l'hanno detto!". Il problema è che in piedi un bimbo ci va se è pronto, non "perchè è ora!", altrimenti gli creiamo danno: questo i genitori lo capiscono perfettamente, se sei in grado di spiegarglielo e di rispondere a tutte le domande.
Se non tiene la testa, in piedi non ci può stare perchè questo lo danneggia. Se non sta seduto, è meglio che non cammini, perchè non è pronto. Se cammina con i piedi equini e falciando, è meglio di no perchè se non lavoriamo su quello che causa l'equinismo, tra un anno lo dobbiamo operare. Questo non significa che non andrà mai in piedi, (anzi, significa dargli più possibilità di andarci: con il metodo "tradizionale" purtroppo ci vanno solo quelli che ci sarebbero andati comunque) significa che bisogna saper riconoscere che cosa è più adeguato con la finalità di aiutarlo (che è ben diverso da "è per il suo bene, e quindi anche se piange va bene lo stesso").
certamente bisogna trovare un compromesso, è ovvio se fa qualche passetto per andare con i suoi compagni va più che bene (è un bimbo, mica una marionetta!), ma non che venga "esercitato" a camminare se non è ancora il caso. Insomma, si valuta un problema alla volta e si va avanti per obiettivi.
Anche il bimbo capisce perfettamente, se le cose gli vengono spiegate e/o se l'atteggiamento generale (genitori, terapisti, insegnanti) è lo stesso. per i bambini diventa "normale" quello che hanno sempre vissuto, quindi se per alcuni sono normali cose aberranti come 25 volontari al giorno che li fanno strisciare per ore contro la loro volontà (di solito infatti alla fine "si arrendono" e smettono pure di piangere), allo stesso modo se i genitori comprendono che l'attesa vale la candela e passano il messaggio ai figli, anche loro capiscono. e credimi, non è questione di gravità, è questione di quello che viene passato dall'atteggiamento del genitore. Quello che intende Perfetti è anche questo: se non gli diamo strategie e gli costruiamo "accrocchi", se gli diamo la comunicazione facilitata invece che lavorare sul linguaggio, gli blocchiamo il pensiero, l'esperienza, e di conseguenza l'apprendimento. il mondo delle scelte è quello dove posso decidere, a seconda del contesto, se mettere la gamba piegata o stesa, e non quello dove visto che "dovevo stare in piedi" (la necessità) mi hanno fatto venire un'irradiazione tale che da seduto i miei piedi non toccano terra.
Ovviamente il suo è un discorso ben più complesso, ma è molto meno "filosofico" di quanto pensi e la risposta è nei contenuti ma soprattutto nell'esercizio. ti assicuro che è tutto molto meno "teorico" e più "pratico", ma... bisogna decisamente vederlo.
Mi rendo perfettamente conto che questo tipo di approccio, che a prima vista sembra basato sul semplice buon senso (ma che in realtà ha anche dei presupposti teorici molto solidi), non è "per tutti". Ormai non spero più che una famiglia che fa Doman da anni cambi idea (ammesso che io debba far cambiare idea a qualcuno ovviamente) e faccia fare al figlio qualcosa di più sensato ed umano (oltre che più utile, visto che i danni del Doman sono terrificanti), ormai lo so che è impossibile e non ci perdo più neanche tempo. Diciamo così, certi approcci "attecchiscono" solo su determinati tipi di persone, non su tutti, ma questo vale un pò per tutte le "filosofie" come le chiami tu.

3) e qui mi collego alla terza domanda: ma come si può fare l'ETC in un bambino? come si fa se non parla, se non capisce, se non guarda, se è gravissimo? Cara Francesca, anche la mia scuola formava precocemente sull'ETC. Quando, arrivati al corso sul bambino, ho studiato il libro della dottoressa Puccini mi sono detta "belle parole, ma come si farà mai? con un adulto, anche afasico, anche grave, un codice di comunicazione si trova, ma con un bambino, magari pure cieco, o sordo, o gravissimo... come si fa?". La risposta è: lo devi vedere, per impararlo. E' ovvio che non è possibile chiedere ad un bambino di sei mesi o ad un bimbo con una grave tetraparesi distonica "dimmi come senti la tua spalla" se vuoi lavorare sulla RAAS ai pettorali. Bisogna conoscere bene o sviluppo del bambino e tenere sempre conto dell'obiettivo che vuoi raggiungere, e le modalità... beh sì, sono molto, molto diverse. Obiettivamente abbiamo problemi diversi rispetto ai terapisti degli adulti: spesso i nostri pazienti non hanno mai parlato, o sono del tutto incoerenti, e molto molto più "impapocchiati" degli adulti che per lo meno hanno un'esperienza prima della lesione, ma la teoria è la stessa e lo stesso è il modo di ragionare: saper osservare (soprattutto "come lo fa"), stabilire un obiettivo sapendo quale comportamento deve uscire fuori all'interno dell'esercizio, e di conseguenza esercizi e modalità. E' vero che questi bimbi non hanno esperienza, ma il loro apprendimento dipende proprio da quale esperienza faranno: se l'esperienza è abnorme, il comportamento sarà maladattativo, se è eccessivamente ridotta, il comportamento non verrà fuori. Se è una buona esperienza riabilitativa, l'apprendimento tirerà fuori il comportamento nuovo (con soddisfazione del terapista, del bambino che impara la "gioia dell'apprendere", del genitore che impara a guardare suo figlio per quello che è, e non per quello che "quando cammina?")
Nell'ETC "si dice" che chi sa trattare un bambino, sa trattare anche un adulto ma che non è vero il contrario. Io non lo so, ho scelto di trattare i bambini perchè non sono mai depressi, e gli adulti che raramente mi capitano li "cedo" volentieri ai miei colleghi :)

A presto e in bocca al lupo per il tuo percorso... ti auguro di intraprendere questo cammino che per me è stato così entusiasmante e ricco di soddisfazioni.

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